Gusto e olfatto sono i sensi più ancestrali e reconditi che abbiamo: nell’evoluzione biologica sensi analoghi insorgono in tempi remotissimi e sono comuni a tutte le forme di vita, dagli organismi unicellulari in poi.
Sono così “profondamente intimi” che non abbiamo parole chiare per designare le singole sensazioni percepite: per l’olfatto, così come per il gusto, ricorriamo ad analogie, ovvero diciamo che quella birra ha sentori di agrume o quel vino ha un gusto che ricorda la ciliegia, ma non riusciamo a dare un “nome proprio” alle varie sensazioni. Qualcosa del genere capita anche con la vista, dove parliamo di colore nocciola o lilla, ricorrendo anche qui ad analogie, ma a un esame più approfondito, si scopre che la situazione è profondamente diversa. Nella visione, i colori fondamentali sono noti, così come il modo di miscelarli per ottenere tutte le sfumature possibili: c’è addirittura un’azienda, la Pantone, che si occupa di classificare tutte le tinte ottenibili e di assegnare un codice numerico universale per indicarle. Questo approccio quantitativo è ad oggi del tutto inapplicabile al gusto e all’olfatto. Se per il gusto sono stati identificati 5 (forse 6) gusti fondamentali, ma non ci sono evidenze su come questi si compongano per dare la sensazione specifica, per esempio, di gusto di vaniglia o di cacao, per l’olfatto non c’è nemmeno un accordo su quali siano gli odori fondamentali (se ce ne sono). Di certo, oltre a essere i più antichi, i due sensi “aromatici” sono anche quelli geneticamente più ricchi di varianti. Se per la visione dei colori sono coinvolti solo 4 geni che specificano ciascuno per una diversa proteina visiva fondamentale, per il gusto i geni coinvolti sono circa 20, mentre per l’olfatto oltre 120! Questa situazione di fondo, unita col fatto che varianti nei geni visivi sono molto rare (e infatti il daltonismo è considerato una patologia genetica) mentre quelle nei geni del gusto e dell’olfatto sono molto frequenti, otteniamo un quadro sorprendente: per fare un esempio, è molto verosimile che un centinaio di visitatori di una mostra d’arte abbia le stesse sensazioni cromatiche suscitate dalle opere in mostra ma ciascuno spettatore senta un ventaglio di odori o un bouquet di sapori sostanzialmente individuale al momento del rinfresco.
Alcuni di questi aspetti verranno trattati più in dettaglio dagli autorevoli interventi che seguiranno, in questo momento a noi preme richiamare l’attenzione su due caratteristiche fondamentali:
- gusto e olfatto sono due sensi ancestrali e “ineffabili” in senso etimologico, ovvero che non possiedono parole specifiche per descrivere le percezioni avvertite per quei canali, e obbligano a ricorrere ad analogie con sostanze dai profumi e gusti noti. Di conseguenza, schivano un trattamento razionale per abbracciarne uno istintivo, umorale;
- gusto e olfatto, con la loro ricchezza di varianti genetiche sono sensi “individuali”, dove l’uniformità tra le percezioni di diversi soggetti alla stessa sostanza non è per nulla garantita: ciascuno sviluppa una propria percezione.
C’è un terzo punto che è una sorta di corollario dei primi due: gusto e olfatto portano a esperienze sensoriali difficilmente ripetibili, perché spesso ciò che si mangia/odora prima influenza il gusto/olfatto di ciò che verrà dopo, quindi difficilmente uno stesso piatto (o uno stesso profumo) in situazioni diverse darà luogo allo stesso risultato percettivo.
Un’ultima nota tecnica, importante per capire le fondamenta del progetto CantinaJazz, ovvero il principio della sinestesia: il nostro cervello non recepisce sensazioni separate, ma tende a fonderle al di là di quanto sarebbe logico aspettarsi: se si parla di “colori caldi” è perché certe tinte danno sensazione di calore indipendentemente dalla temperatura reale dell’oggetto che le presenta. Queste sinestesie non sono semplici associazioni mentali, ma hanno un fondamento fisiologico: diverse pubblicazioni scientifiche di alto livello hanno investigato come le esperienze sensoriali siano mutuamente influenti. In particolare, è documentato (usando tecniche di NMR in vivo) come l’ascolto di musica di vario tipo cambi la percezione gustativa di ciò che si sta mangiando.
Questo risultato rappresenta un altro incoraggiamento ad abbinare bene vino e musica! Ma a questo punto si pone il problema: quale musica? O meglio: qual è il genere musicale più adatto ad accompagnare una degustazione? A nostro avviso è il Jazz, perché nel DNA del Jazz troviamo almeno tre punti in comune con la personalità del vino e delle percezioni gustative a lui associate:
- il Jazz è umorale e vive di improvvisazione, altrimenti detta composizione istantanea, che dipende in modo critico dall’interplay che si crea nel gruppo musicale, dalla comunicazione con il pubblico, dall’atmosfera generale della sala… in una parola: dal contesto. Allo stesso modo, la degustazione di un vino dipende fortemente da cosa viene servito come accompagnamento, e dal punto in cui compare nella scaletta. In ambedue i casi, è l’atmosfera complessiva che determina il risultato della percezione;
- proprio perché vive di improvvisazione, il Jazz non è mai uguale a sé stesso: lo stesso brano suonato da due formazioni diverse, o dalla stessa formazione ma in due momenti diversi, risulta differente, alle volte sorprendentemente differente, alla stessa stregua del vino che cambia da annata ad annata, da zona a zona. Pensiamo a quante diverse interpretazioni di “Stella by Starlight” ha registrato Miles Davis, o quanto diverse potessero essere le renditions di “How High the Moon” cantate da Ella Fitzgerald a Roma, a Tokyo o a New York anche a distanza di pochi giorni (o addirittura ore) l’una dall’altra.
- Il Jazz nasce come musica collettiva che esprime le istanze di intere fasce della società in modo corale e non individualista; anche quando si ascolta un solista lanciarsi a capofitto in un assolo non va mai visto come un esercizio dell’ego, ma invece come un amalgama di suoni, sensazioni e ispirazione di chiunque stia sul palco e sotto. Il Jazz è musica che unisce e non separa: esattamente come il vino, crea convivialità.
Tutte queste premesse ci dicono che tentare di abbinare vino e musica può avere un senso (addirittura fisiologico) e il matrimonio tra vino e jazz è forse quello più felice: d’altro canto, che stessero bene insieme si capiva già dalle varie iniziative jazz&wine sparse per ogni dove. Anche se in tutti quei casi si trattava di una giustapposizione, ovvero di avere un evento in cui figuravano insieme, ma separati, un concerto jazz e una degustazione. Il passo ulteriore, specifico e originale di CantinaJazz è stato quello di costruire la sinestesia, e suonare musica opportunamente scelta, arrangiata ed eseguita per andare in parallelo con le armonie dei sapori del vino. I criteri con cui strutturare questo abbinamento sinestesico sono l’oggetto di un prossimo capitolo.